Due esperienze con il lavoro di Andrea e Raffaella
Ho avuto modo di collaborare con Andrea Caretto e Raffaella Spagna in più di un’occasione durante gli anni di e/static, particolarmente nello spazio espositivo blank. Soprattutto due di questi progetti hanno lasciato una traccia profonda, nella storia di e/static e in quella mia personale, ed ebbero luogo a distanza di circa sei anni uno dall’altro: il primo, l’installazione Soil Practice, nel 2009, l’altro una performance, Mineral Altar, nel 2015. Due progetti diversi fra loro, che però mostrano caratteri comuni, e per quanto riguarda quelli dissimili, essi possiedono una reciproca complementarietà, e mi paiono esemplari del particolare modo di ‘fare arte’ di questi due autori, in grado di ben rappresentare le linee essenziali, portanti, di tutto il loro lavoro.
In linea generale le opere di Caretto e Spagna hanno sempre una forma instabile, che muta si può dire continuamente, e ogni possibile immagine che voglia documentarle è bensì un frammento dell’insieme, che è semmai multiforme e non si può mai afferrare con un solo sguardo ma soltanto immaginare. Ovviamente se ne può parlare, o scrivere, e chi ascolta o legge può farsene un’idea; ma l’approccio migliore è sempre quello diretto, il fatto di trovarsi fisicamente al cospetto dell’opera, in un momento della sua vita, soprattutto mentre loro la stanno creando. Meglio ancora, avere l’opportunità – come spesso è possibile fare – di lavorare con loro alla realizzazione di un’opera. Che, appunto, non ha una forma definita una volta per sempre, ma può assumerne un numero spesso potenzialmente infinito, finché la sua vitalità è in atto, finché i due, spesso con la collaborazione del cosiddetto pubblico, se ne prendono cura in molti modi. Ma non poche delle loro opere, una volta attivate, riescono a procedere del tutto autonomamente, senza alcun intervento esterno, umano, che faccia seguito a quello o a quelli iniziali.

È il caso di Soil Practice, emblematica per il fatto di comprendere molte delle modalità principali del particolare approccio di Andrea e Raffaella alla creazione. Inaugurata il 16 aprile 2009, l’installazione comprendeva un certo numero di manufatti (vasche in acciaio modulari di forma rettangolare, per contenere terriccio o acqua), quindi alcuni strumenti tecnologici – ma di un tipo alquanto elementare – in grado di sostituirsi all’azione umana sul lungo periodo, per fornire l’indispensabile regolare fornitura di acqua. Le vasche venivano quindi riempite, appunto con terriccio o acqua, dopodiché – e qui subentra il coinvolgimento di altri autori, che collaborano con i due alla creazione –, il 28 maggio, in occasione di un nuovo incontro pubblico, tutti i presenti erano invitati a mettere i noccioli dei frutti appena mangiati in una grande zolla di terra arata. Che era stata appena aggiunta agli altri elementi per dare avvio, anche lì, alla crescita che si sarebbe protratta fino all’inizio di autunno, mettendo in atto la modalità principale, quella della crescita appunto, peraltro del tutto incontrollabile dai due, ma soltanto favorita, in remoto (dopo l’attivazione di un sistema di irrigazione munito di temporizzatore). Durante quel lungo periodo (in tutto più di cinque mesi) una imponente trasformazione ebbe luogo, affatto spontaneamente, senza sosta, e del tutto avulsa dal tempo convenzionale inventato e utilizzato dagli uomini, eludendo qualsiasi rispetto degli orari di apertura del luogo, un grande terrazzo a cui si accedeva dallo spazio espositivo.
Sono state fatte centinaia di immagini per documentare l’opera, in qualunque ora del giorno, e se si confrontano le prime, scattate ad aprile, con le ultime, di settembre, risulta a tutta prima difficile capire che si tratta delle stesse cose in momenti diversi della loro vita, le varie zolle, l’aiuola di terra sterile e la vasca piena d’acqua. Soltanto le fattezze del luogo, il grande terrazzo aperto su due lati, e quelle dei contenitori – le vasche di cui sopra – aiutano, con la loro relativa fermezza, a stabilire una connessione attraverso un ragionamento che supplisce alla natura ingannevole dei dati forniti dalle apparenze.

Qualche anno dopo, fra il dicembre 2014 e il gennaio 2015 Andrea Caretto e Raffaella Spagna, durante una residenza a Krems, in Austria, percorsero ripetutamente le rive del Danubio nella Wachau, raccogliendo centinaia di pietre modellate nel tempo dal fiume, che le aveva spostate da un luogo all’altro, lentamente ma senza sosta, sempre modificando la loro forma e disperdendole in quell’ambiente caotico. La raccolta di Caretto e Spagna – che scelsero ogni pietra fra mille altre presenti in ognuno dei siti esplorati – aveva determinato un passaggio da quel caos a un sistema ordinato, anzi a una serie di sistemi, perché le pietre potrebbero appartenere a più di una classe, a seconda che si consideri la loro forma, il colore o la grandezza, eccetera. E così come il caos a cui precedentemente appartenevano le pietre della Wachau aveva tutte le caratteristiche della provvisorietà e dell’impermanenza, anche questa nuova ordinazione, o queste nuove ordinazioni operate dai due artisti, non sono definitive, non venendo le pietre costrette a permanere indefinitamente in una collocazione stabile e rigidamente fissata. Di volta in volta, esse possono essere deposte – ma non fissate – su un supporto di varia forma e dimensione, creando sempre nuove costellazioni secondo criteri variabili, perché non rigidamente codificati.
Sabato 4 luglio 2015, a blank, Andrea e Raffaella rievocano e rappresentano in una forma nuova la loro azione di ricerca e raccolta delle pietre nella Wachau. Una certa quantità delle quali viene preventivamente accantonata in un angolo dello spazio, nascosta da un grande telo bianco che impedisce al pubblico presente di vederle prima dell’inizio della performance. Lì vicino, un grande tavolo rettangolare avrebbe accolto tutte le pietre estratte a turno dai due performer dal loro provvisorio deposito, sotto il telo bianco. Così, per circa 40′, una danza lenta e muta – soltanto l’intermittente e lieve tintinnare delle pietre quando talvolta si toccavano turbava il silenzio – si svolgerà davanti agli occhi degli astanti, mentre i due, scalzi, tolgono i sassi dal caos nell’angolo, riponendoli sul tavolo a formare nuove composizioni: un breve percorso dal buio dell’indistinto alla chiarezza di un sistema ordinato.
Se nel caso della performance si ha a che fare con dei ciottoli, oggetti inanimati che possono mutare forma o posizione soltanto per effetto di un’azione esterna, in Soil practice tutta l’attività venne compiuta autonomamente (con il contributo di sole, pioggia, vento), e incontrollabilmente, dalle piante, e gli autori si limitarono ad assegnare un luogo al lungo processo e ad attivarlo quindi. Due modalità diverse fra loro che mi sembrano però complementari. Per quanto riguarda invece le somiglianze, entrambe le opere – o per meglio dire, operazioni – di Caretto e Spagna, anche quando stanno, o avvengono, in un interno, hanno sempre un forte legame con un altro luogo, o molti luoghi, esterni, e questo legame – generalmente comprovato dalle apparenze – le rende libere, per cui viene naturale pensare che si trovino lì, in uno spazio chiuso, soltanto provvisoriamente, senza esservi vincolate in modo immutabile1. Il terrazzo, accessibile dallo spazio espositivo, era esposto all’azione di tutti i fenomeni naturali che avrebbero propiziato il processo di crescita dell’installazione. Nella performance, pur non essendo ostentato il legame fra le pietre e la loro provenienza – il letto del Danubio – esso è reale, immanente, e per chi ne viene a conoscenza, anche successivamente, la percezione dell’opera risulta subito assai più ampia, più completa e profonda.
È insomma, quella di questi due autori, un’arte libera dai condizionamenti dello spazio espositivo convenzionale, anche quando, occasionalmente, ha luogo al suo interno.
1 Infatti, in chiusura del progetto, il 21 settembre 2009, tutte le piante cresciute sul terrazzo verranno portate, o riportate, nel loro ambito di competenza, diciamo così: un ambiente naturale dove continuare la vita iniziata lassù.
(scrissi questo testo nel marzo 2023 dopo avere accolto l’invito di Andrea Caretto e Raffaella Caretto che stavano allora iniziando a preparare il loro libro, Bright Ecologies; il testo non venne poi utilizzato in quanto eccedeva sensibilmente il limite delle 3000 battute – limite di cui peraltro non ero a conoscenza)
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