Spesso si dice o si scrive a proposito del capire un’opera d’arte – pittura o scultura, letteratura o cinema – o perfino una persona o un luogo. Capire deriva dal latino càpere, e più indietro da una parola greca, kàptein che significa ‘prendere’ o anche, dopo un tortuoso percorso fra vari idiomi nel corso di molti secoli, ‘afferrare’, quindi anche ‘contenere’ (da cui la ‘capienza’ di un contenitore).
Insomma, si cerca di prendere, afferrare, bloccare qualcosa che si muove, o che tende naturalmente a farlo, per imprigionarlo in una forma che si vorrebbe perpetua, immutabile. In verità, possiamo soltanto entrare temporaneamente in contatto – anche per un attimo – con un’opera, una persona, un luogo, in un determinato momento della sua vita e della sua storia. Rivedendoli, ritornandoci, dopo qualche tempo, non sono più quell’opera, persona, luogo, ci accorgiamo che sono qualcos’altro e non possiamo pretendere di capirli, ovvero di farli coincidere con la forma in cui ci apparvero la prima volta, e poi le volte successive. Non capire, non afferrare, non bloccare, bensì stabilire una relazione che determina in noi un’impressione, ogni volta una del tutto nuova, che aggiungendosi a tutti le precedenti contribuisce a creare un’idea, affatto multiforme e contraddittoria, di quell’opera, persona o luogo.

Verso la metà di Cerrar los ojos, un film (uscito nel 2023) di Victor Erice vediamo apparire un volto che ha qualcosa di familiare, anche se ci vuole qualche secondo per rendersi conto che appartiene ad Ana Torrent. Quegli occhi, che lasciarono un segno indelebile in chi vide il primo film di Erice, El espíritu de la colmena, non sono più così spalancati, cinquant’anni sono trascorsi, un tempo molto lungo e all’epoca lei aveva soltanto sette anni. Allora ogni loro sguardo esprimeva stupore, audacia, inquietudine e tristezza, spesso tutte queste cose insieme, mentre ora si sono stretti, come se gli fosse ormai impedito, per sempre, di spalancarsi.
Questa apparizione è uno dei primi segnali che ci mettono, io credo, sulla strada giusta per individuare il senso dell’ultima opera (finora) di Erice, che tratta del tempo, della sua azione costante e implacabile sulle persone, che cambiano esteriormente ma rimangono sempre avvinte a tutte le esperienze vissute, a tutti coloro con cui le hanno condivise, ai luoghi in cui sono avvenute. È un’opera sui legami invisibili fra presente e passato.
Anche il personaggio della Torrent si chiama Ana, come nello stesso primo film, quando aveva sette anni, e dove pure inizialmente ne aveva un altro. Ma a un certo punto durante la lavorazione Erice decise che i quattro protagonisti (Ana, la sorella maggiore e i loro genitori) si dovessero chiamare ognuno con il proprio vero nome, dopo essersi accorto che la bimba era sconcertata e confusa non riuscendo a capire per quale motivo tutti avessero un altro nome1. E così, «Yo soy Ana», dirà nella seconda parte di questo film incontrando il padre (che non la riconosce) per la prima volta dopo vent’anni. E «Yo soy Ana» aveva già detto cinquant’anni prima, nel primo film di Erice. Due volte Ana, anzi tre, perché la prima è lei, Ana Torrent, che contiene e rappresenta le altre due: come cucire insieme, con lentezza, accuratamente, tre vite – una reale e due immaginarie – nell’arco di mezzo secolo. Ma cos’è mezzo secolo? Un soffio davanti a uno specchio, che si appanna per pochi secondi. Durante i quali tutto viene ricordato, anzi rivissuto.
La Torrent stabilisce un altro legame forte fra i due film, il primo e l’ultimo di Erice, perché in entrambi chiude gli occhi – attivando un’altra vista, più profonda e più pura, soprattutto più libera, che va oltre le apparenze – e sempre in un momento cruciale. La prima volta alla fine, gli occhi della bimba chiudendosi creano una separazione fra lei e noi che la guardiamo, chiudendo di fatto anche il film. La seconda, Ana li chiude dopo aver rivisto il padre (quasi sempre assente nella sua vita anche prima) ricomparso dall’oblio dopo vent’anni, durante i quali era stato dato per morto. Perciò il titolo del film, che pure ci mostra questo gesto fatto da un’altra persona, la giovanissima figlia del vecchio ebreo nel film incompiuto di vent’anni prima (La mirada del adiós, ovvero Lo sguardo dell’addio) che apre e chiude Cerrar lo ojos, parrebbe piuttosto riferirsi ai due momenti di Ana Torrent, separati da cinquant’anni della sua vita reale e apparsi in due film di finzione.
Sembra proprio essere, Cerrar los ojos, un film su Ana Torrent, anche. Ma si deve aver visto prima di questo (o anche dopo) il primo di Erice, El espiritu de la colmena, per rendersene conto. Il cinema come registrazione del mutamento in cui incorre una persona in cinquant’anni della sua vita, dall’infanzia alla mezza età. Quindi non soltanto finzione ma anche realtà, e i due livelli – ciò che accade in questo film – si intersecano, lavorando in osmosi.
Infine, ancora una volta, ed è la terza su tre film di Victor Erice, assistiamo a una vicenda di relazione fra una figlia e suo padre. In questo caso sono addirittura due figlie e due padri, idivisi fra Cerrar los ojos e La mirada del adiós. È quanto meno possibile che questo aspetto riguardi da vicino proprio lo stesso autore, della cui vita privata, peraltro, io non so niente.
1 Qualcosa di simile accade, ad esempio, in Sotto gli ulivi di Kiarostami (incidentalmente, un autore che credo Erice apprezzi molto) e in Pane e fiore di Makhmalbaf. In entrambi, gli attori, non-professionisti che nel primo caso devono interpretare sé stessi, non riescono a fingere e si rifiutano di compiere, sia pure all’interno di un film, gesti che non compirebbero mai nella vita, e vogliono essere chiamati con il loro vero nome.
ps: ho scoperto pochi minuti fa, mentre mi accingevo a pubblicare questo testo, che nel 2011 Erice realizzò, all’interno di un progetto collettivo dedicato alla tragedia di Fukushima, 3.11, A Sense of Home, un corto di 3′ intitolato Ana, tres minutos. Ovviamente, con Ana Torrent.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.