Contro le immagini

L’attitudine sempre più radicata, soprattutto nell’ambito della comunicazione, cosiddetta, a dare la prevalenza alle immagini ha portato a una visione bi-dimensionale della realtà, tutto viene posto su un unico piano, che, per quanto vasto possa essere, manca sempre della terza dimensione: la profondità. Sia spazialmente sia temporalmente, non ce n’è alcuna, non emerge quel che è stato e non si vede più, ma ancora c’è, ovvero agisce sul presente, sulla situazione attuale, quella che si vede facilmente, anche da molto lontano, grazie ai mezzi di comunicazione di massa, sempre più potenti e invasivi. Che, appunto, lavorano soprattutto – anzi, quasi esclusivamente – sulle immagini1, le quali sono impotenti a fornire un accesso alla profondità, la terza dimensione. Ciò che invece sarebbe possibile, in linea teorica, alla scrittura testuale, sia pure a prezzo di un grande sforzo. Perché lo stesso linguaggio assume spesso apparenze ingannevoli, si usano con noncuranza, irriflessivamente, termini di cui non si sa, o non si ricorda (comunque non si tiene presente) l’origine, il perché iniziale, originario appunto. Quindi, per poterlo usare efficacemente si deve avere la massima cautela, evitando le scorciatoie e l’uso automatico, non consapevole, di termini che sono stati nel tempo sempre più distorti e piegati alle esigenze dei poteri e portano quindi a una visione o percezione distorta della realtà2.
Attualmente fra le immagini e il linguaggio testuale è spesso in atto un rapporto di servilismo reciproco, che priva entrambi gli strumenti della propria autonomia. Ma mentre le prime continuano a invadere, occupandolo, lo spazio della comunicazione, cosiddetta – e l’obiettivo finale pare essere quello del dominio assoluto – il secondo si riduce sempre più, si auto-mutila, e a forza di semplificazioni e abuso di acronimi e di frasi fatte svuotate di senso è ormai diventato una specie di rovina, un simulacro dell’antica ricchezza e complessità. A rappresentare egregiamente questo stato di cose, nei notiziari video, la riga di testo, in caratteri minuscoli, che corre, da destra verso sinistra, sotto immagini in movimento molto più vaste, enormi a paragone – come i sottotitoli in un film in lingua originale – che attirano tutta l’attenzione dell’osservatore. Probabilmente, quasi nessuno la legge più, e ben presto sparirà, come un residuo inutile, un costo di produzione aggiuntivo, da tagliare senza pietà né rimorso alcuno.
Io credo che l’unico modo per eludere il potere delle immagini – ma anche il nostro potere su di esse – sia di non dare loro alcun significato, di non assegnare loro alcuna valenza simbolica. Un’immagine andrebbe considerata alla stregua di un animale o di una pianta, protagonista di una vita propria senza alcun nesso con la nostra e di cui poco sappiamo. Un’immagine insomma non ci deve rappresentare, e sarebbe bene che non rappresentasse mai alcunché. E nel caso di inserimento in un testo, di qualsiasi natura e su qualsiasi medium, l’ideale, per la libertà e l’indipendenza di entrambi, è una certa reciproca incongruenza.

1 Una definizione fra le tante di immagine potrebbe essere questa: la cristallizzazione di un istante di tempo, qualcosa a cui qualcuno (fotografo o pittore) ha assistito, in taluni casi partecipato. È stato un fenomeno transeunte, in continua modificazione, fino alla sua scomparsa; ora rimane la sua rappresentazione – supportata dal ricordo – in forma, appunto, di immagine. Che non ha molto a che fare con quello, perché è morta, raggelata per sempre, mentre quello era vivo – nato dal nulla, si è sviluppato ed è quindi scomparso, divenendo invisibile. Perciò esso può essere soltanto ricordato, da chi era lì. In definitiva: l’immagine e il fenomeno (in senso ampio, l’oggetto) che essa rappresenta, cristallizzandolo, sono due mondi separati, nella migliore delle ipotesi paralleli. Bisogna stare molto attenti a non confonderli. Soprattutto a non sovrapporli, ciò che peraltro è impossibile (vedi El sol del membrillo, un film del 1992 di Victor Erice).

2 Ciò che vale, ovviamente, anche per le immagini, facilmente riducibili a luoghi comuni da consumare nel breve tempo della loro apparizione di fronte al nostro sguardo. Su tali luoghi comuni si regge tutto l’impianto di stravolgimento della realtà, un sistema di schermi che tende a sottrarla alla nostra pura percezione.

(scritto lo scorso 12 luglio)