Elegia della panchina

In un film di Rivette del 1981 visto di recente, le protagoniste (soprattutto una delle due, Bulle Ogier) fanno spesso uso della panchine che si trovano – o quanto meno si trovavano, vi manco da anni – in gran numero a Parigi, soprattutto, ovviamente, nei parchi e nei giardini, o sui boulevard, tutte cose che lì abbondano. Non è una grande novità per il cinema francese – girato in massima parte a Parigi, da sempre, e soprattutto in quegli anni – ma certamente in questo film le panchine sono spesso co-protagoniste e accompagnano la vita errabonda delle due donne attraverso la città. Ci si siedono, soprattutto di giorno, per fare una pausa che interrompa una camminata, oppure ci si sdraiano la sera per dormirci sopra e passare così la notte, all’addiaccio, ma almeno sollevate da terra1. L’ho subito notato perché io amo le panchine e ne faccio spesso uso quando sono in giro. Mi ci siedo sopra e spesso apro un libro per leggerlo, come fa Bulle proprio all’inizio di Le pont du nord, dopo essersi stirata guardando verso il cielo, visibilmente compiaciuta. È bello leggere un libro seduti su una panchina (io se potessi leggerei i miei sempre e soltanto lì), ancor di più se si trova in un luogo piacevole e interessante: una bella vista (ad esempio sul fiume, sotto gli alberi) e anche la tranquillità, se è collocata in un parco; e poi l’ombra fresca, d’estate, se la panchina si trova sotto grandi piante dalla chioma rigogliosa. Se non si è soli, ma insieme a una persona amica, si può conversare, distraendosi ogni tanto per seguire con lo sguardo qualcuno che passa, o qualsiasi altro evento insolito e attraente, come un uccello trasvolante nei dintorni o una foglia che cade. Tutte cose che ci possono distrarre momentaneamente anche durante la lettura di un libro, che pure risulta così ancora più piacevole e stimolante, per l’effetto rinfrescante di certe pause.

La panchina più comune è costruita in modo semplicissimo: due tavole di legno come seduta, ognuna larga circa 20 cm e lunga circa due metri, fissate a due sostegni saldamente ancorati al terreno, per lo più in ferro, che fungono da struttura, fornendo anche l’appoggio per lo schienale. Che è a sua volta costituito da una tavola come le altre due, stessa larghezza e lunga uguale, fissata al montante in ferro di cui sopra. Questa è la tipologia più diffusa qui in città, anche se non sono poche quelle dalla forma apparentemente più anatomica (in realtà meno comode delle altre, almeno secondo me), simile a un’onda, formata da molte assicelle in legno (5-6 cm ognuna) giustapposte e fissate anche qui a una struttura in ferro. Recentemente sono apparse nuove tipologie di panchina – anche se un po’ esito a chiamarle così – in cemento, o materiale consimile, massicce, apparentemente indistruttibili ma non molto comode, per di più fredde in inverno e bagnate a lungo dopo una pioggia. Anche queste possono fare all’uopo, ossia fornire una possibile seduta al viandante, seppure il contatto con il legno è ben altra cosa. Ma anche quando ci si siede su una rara panchina in pietra (ovviamente senza schienale, quasi sempre) la sensazione può essere altrettanto piacevole di quella che si prova sedendosi sul legno: sono pur sempre materiali naturali, hanno un’anima.

A me la panchina sembra una grande invenzione, perché dà la possibilità di fermarsi a riposare, e a meno che non sia piazzata proprio davanti a un muro (capita, talvolta) permette a chi c’è seduto sopra di guardare panorami spesso piacevoli, oppure di osservare all’intorno la vita che continua a pulsare mentre si rimane fermi e seduti, godendo di una fugace vacanza. In verità l’invenzione sta nel fatto che la panchina è staccata dal suolo, anche soltanto di una cinquantina di centimetri, così non si sporcano gli abiti stando seduti per terra; oltretutto il suolo può essere umido, sedercisi, soprattutto a lungo, non è salutare. Purtroppo, per motivi che non ho mai capito bene (mi riprometto sempre di chiederlo, ma non mi sono mai osato) ci sono persone che invalidano la proprietà della panchina di stare seduti su un supporto pulito. Essi infatti, con un gesto che trovo molto irritante, si siedono bensì sullo schienale, appoggiando i piedi, ovvero le scarpe che li calzano, certamente non pulite, sulla seduta della panchina. Ma perché? Non si sa, e non lo saprò mai finché non mi deciderò a chiederlo. Ammesso che poi mi si risponda: sono molteplici gli atteggiamenti di uso comune che la gente adotta senza che saperne bene il motivo, soltanto perché lo si è visto fare da altri, magari con una certa aria sprezzante, di noncuranza e di superiorità, e allora perché no.

Ho intitolato questo piccolo testo Elegia della panchina, ma l’elegia (stando ai vocabolari connsultati) generalmente ha qualcosa di malinconico, come un rimpianto per qualcosa o qualcuno che si è perduto, mentre le panchine ci sono ancora, in giro, in certi angoli della città. Ma sono sempre meno, e non poche sono malandate, anche molto: le tavole di legno alla lunga marciscono, inevitabilmente, dovrebbero essere sostituite di quando in quando, ma ciò non succede quasi mai. Come se fosse un lusso, sedercisi, qualcosa da fare quasi con un certo senso di vergogna, dato che ci si ferma e si sta seduti lì sopra sottraendosi all’ordinaria frenesia della vita urbana. Infatti sono spesso deserte, nei giorni feriali, occupate quasi soltanto da persone anziane che si vogliono riposare qualche minuto, oppure da qualcuno che ci si sdraia sopra e addirittura si addormenta, perché probabilmente non ha una casa, e quasi certamente nemmeno un lavoro. Forse perciò le panchine vengono trascurate dagli addetti alla loro manutenzione: non sembra una priorità la loro cura, perché non servono realmente a nulla, non sono produttive, ma inutili bensì (nel senso che il loro uso non dà un utile, e non serve quindi alla società). Sono quindi, le panchine, connesse a un’idea diversa del vivere, più libera, meno legata ai ritmi e agli obblighi imposti dalla società, e chi ci si siede quasi mai è appena sceso da un’auto, ma ci arriva a piedi, o al massimo è appena sceso da una bicicletta. Inoltre, esse sono pubbliche nel miglior senso della parola, appartengono ogni volta a chi ci sta seduto sopra, ma soltanto finché rimane lì, dopodiché la loro momentanea proprietà passerà al prossimo, o ai prossimi, che ci si siederanno.
Per questi motivi, e per il timore che questo strumento (e simbolo) di libertà possa alla lunga sparire, o quantomeno – come succede già ora molto di frequente – sia lasciato deperire fino a sfasciarsi, tristemente, penso che abbia senso intendere questo testo come un’elegia.

1 In un’occasione, ci viene mostrato un esempio di un altro uso, fra i più nobili bensì, di questo elemento, ossia lo scambio di effusioni fra due innamorati, anche spinte, se si tratta, come in questo caso, di amanti. Il film sembra davvero essere, almeno in parte, un omaggio alla panchina, esponendo tutti i vari usi che se ne possono fare.