Contrasti

Ero in un supermercato ieri mattina, e mi guardavo attorno. L’ambiente è formalmente pressoché impeccabile, tutto bene ordinato, le vetrine risplendenti, come i pavimenti, che sembrano sempre essere stati appena lavati (e forse lo sono davvero). C’è un ordine quasi assoluto nella disposizione dei reparti, con le scaffalature parallele (stracolme di cose, tutte bene ordinate) che hanno su un lato altre scaffalature messe a perpendicolo. Poi ci sono, sparse in giro, le persone, i dipendenti e i clienti, che spingono, quasi tutti, un grosso carrello al quale sembrano aggrapparsi per non cadere. Ed effettivamente è così, sono molti gli anziani dalle gambe malferme, alcuni proprio claudicanti, uno – un uomo alto e molto loquace, doveva avere almeno ottant’anni – dignitosamente appoggiato a un bastone. L’espressione sui volti di tutti è seria, in qualche caso ansiosa, in altri, pochi, una mascherina impedisce di vederla. Peraltro, Ivan Illich già qualche decina di anni fa affermò, da qualche parte in uno dei suoi smilzi, densissimi libri, che i supermercati stavano assomigliando sempre più a ospedali.
In quel luogo che ci siamo abituati a considerare normale, ma che talvolta, come per me ieri mattina, è realmente inquietante, il contrasto con vetrine, pavimento e scaffalature è stridente e la sostanziale fragilità degli avventori messa in forte evidenza. Perché è proprio così: noi umani siamo fragili, corruttibili (in senso fisico), invecchiamo tutto sommato velocemente e invecchiando diventiamo sempre più cagionevoli di salute. Ma pure diversi giovani non è che appaiano molto prestanti e sani: c’è chi denuncia una eccessiva magrezza, con un colorito malsano, chi al contrario una tendenza all’obesità, chi si muove con difficoltà a causa di qualche handicap. E molti di loro sembrano incerti, indeterminati, attenti soprattutto a qualcosa – suoni o voci – che promana dalle cuffie che portano in testa, o dagli auricolari, una cosa e l’altra collegate all’inseparabile smartphone, la (relativamente) nuova protesi portata da quasi tutti ormai, senza la quale, si presume, si sentirebbero totalmente persi e che tornano di continuo a guardare ossessivamente.
Dico queste cose, noto certi contrasti, forse anche perché quest’anno, nel giro di pochi mesi, sono morte tre persone amiche, e per due volte sono andato alla loro funzione funebre, per salutare il defunto insieme ad altri che lo conoscevano. Ho rivisto persone che non incontravo più da anni, in qualche caso quasi irriconoscibili, e una in particolare era sì riconoscibile, ma con mio sgomento, appurando il suo terribile declino, avvenuto nel giro di pochissimi anni.
Sembrerebbe che in quest’epoca, che a me – e forse non soltanto a me – appare tristissima, forse anche perché ci sono pochi bambini, a loro volta quasi sempre tristi e assorti (e quasi tutti dotati della propria protesi-smartphone), la gioia di vivere e una certa positiva leggerezza stiano sparendo, nonostante qui, in questa parte del mondo, non ci siano più guerre da molte decine di anni. Dal mio punto di vista di persona anziana, sempre più vicina alla fine del tempo datomi, credo sia impossibile non accorgersene, soprattutto perché confronto ciò che vedo e vivo ora con ciò che vidi e vissi molte decine di anni fa. E non posso neppure ignorare il contrasto stridente fra l’astratta, implacabile perfezione delle cose che ci circondano (anche le auto, ad esempio, e certe case che si costruiscono adesso, fredde e aliene) e condizionano la nostra vita in ogni frangente, per lo meno quando usciamo di casa, e la nostra – di noi umani – sostanziale imperfezione e impotenza.
Mi sono così tornate in mente, proprio ieri mattina, certe opere di Walter De Maria degli anni ’60, soprattutto. Quel cubo di acciaio cromato – credo fosse sui 40 cm di diametro, forse 50, non di più – su uno spigolo del quale era stata appoggiata una candela, quindi accesa. La candela bruciava, riducendosi sempre più, quasi a vista d’occhio, fino a spegnersi, mentre il cubo rimaneva intatto, irriducibile, soltanto un po’ sporco su un lato, quello dove era colata la cera disciolta. Che poi si poteva ripulire facilmente, riportando l’acciaio al suo splendore originario, mentre la candela non c’era più, una volta che la fiamma si era spenta. È un’opera di una semplicità e di una concisione assolute, ma quasi da vertigine la sua efficacia, se ci soffermiamo un attimo a pensare a cosa è e soprattutto a cosa rappresenta.
Ma ce ne sono altre dello stesso autore, che però conosco soltanto attraverso fotografie o descrizioni – testuali o verbali – mentre quella la vidi bene da vicino almeno una volta. Me ne ricordo una perfino più disturbante, perché trovava la propria ragione d’essere soltanto attraverso il suo possesso da parte di un cosiddetto collezionista, altrimenti è come se non esistesse realmente, se non come materiale. Un’asta di acciaio inox, ma piena, quindi piuttosto pesante, ancorché relativamente sottile (per poter essere impugnata, quindi, volendo, portata in giro), di lunghezza pari all’altezza media di una persona. Anzi, credo che ogni compratore entrasse in possesso di un’asta che aveva la sua stessa altezza in quel momento, fatta su misura per lui. Credo anche – ma la memoria potrebbe ingannarmi – che si dovesse stipulare un contratto: il compratore, finché fosse rimasto in vita, si impegnava a non vendere mai l’asta, perché era sua e soltanto sua, da lui o da lei indivisibile. Ecco, il contrasto fra le due entità, una dura, inscalfibile e immutabile (se non con una fusione in altoforno), l’altra fragile, continuamente modificata dal tempo, che nel corso degli anni si accorciava, diventando sempre più debole – oltreché paurosa –, sempre esposta al rischio di malattie, patendo il caldo e il freddo eccessivi, continuamente sull’orlo della fine, e quindi della dissoluzione, tutt’ora mi sgomenta come poche altre cose riescono a fare. Forse perché l’asta è del tutto passiva, non fa realmente nulla di male al suo possessore, ma proprio così, rimanendo immobile, ferma e assolutamente noncurante, agisce come uno spietato termine di paragone e rappresenta per contrasto la sua estrema – al confronto – fragilità e caducità, la sua irrimediabile finitezza. E gli sopravviverà indefinitamente.