Rikyū e altri maestri del tè (una postilla)


Nella cerimonia del tè (v. Rikyū, del 1989, e Gō-hime, del 1992, due film di Teshigahara Hiroshi) ci si ritrova in due persone all’interno di un luogo creato appositamente – o comunque ritenuto adatto – per la pratica di questa cerimonia. Vi si accede scomodamente, passando per uno stretto pertugio, situato in basso all’altezza del pavimento, costrizione obbligata che vale per tutti, anche per lo shōgun, che è peraltro il signore a cui Rikyū fa riferimento, da cui è stato nominato maestro (della cerimonia) del tè.
Avevo intuito con chiarezza nel 2021, visitando l’installazione video di un amico [v. qui], la necessità di accedere soli al luogo (incidentalmente, assai peculiare e fuori dai canoni) dell’installazione e rimanervi in solitudine per poter stabilire un dialogo con il video – in quell’occasione proiettato direttamente su un muro; che è poi anche, in maniera indiretta, un dialogo con il suo autore. Altrimenti, la normale fruizione collettiva (diciamo oltre le due persone presenti) inevitabilmente trasforma e corrompe l’esperienza: si assiste a uno spettacolo, siamo parte di una platea, un vero e completo dialogo, nella sua forma più pura e più profonda, ci è negato.
Allo stesso modo, il maestro del tè e il suo ospite possono stabilire un dialogo nella stanza del tè: il maestro vale quanto l’opera (video o altro), che avendo luogo, dovendo essere agita per esistere, necessita della presenza di una persona, il maestro appunto. Costui è l’opera, e viceversa, la rappresenta così come essa lo rappresenta.

Mi sembra ora di capire che l’esperienza di e/static e poi anche di blank abbia sempre avuto queste caratteristiche, per quanto mi riguarda, quando, innumerevoli volte, mi trovavo solo dentro un’installazione (soprattutto in via Parma, dove non esisteva un vero e proprio ufficio). Ma lo stesso visitatore che veniva in un giorno di normale apertura, dopo l’inaugurazione, anche lui/lei si trovava in questa condizione, solo con l’opera, in grado di stabilire con essa un dialogo. E la mia presenza – quando intuivo che avesse senso, che fosse utile – era non soltanto discreta ma anche di grande disponibilità a stabilire un dialogo con il visitatore. In quei casi io rappresentavo, in qualche modo, l’opera e il suo autore, facendo da tramite fra le tre entità, mettendomi però in gioco a mia volta, ovvero non rimanendo passivo, ma presente e attento, vuoto soprattutto, per poter vivere intensamente quell’esperienza.
Si può ben dire che tutto quanto è stato creato e presentato nell’ambito di e/static, per circa vent’anni, non ha mai, o quasi mai – o comunque, mai intenzionalmente – avuto le caratteristiche della spettacolarità, ma ha bensì trovato la sua giusta dimensione sempre nel modo dimesso di cui detto sopra.
Ma queste caratteristiche sono, prima ancora, le stesse mie: non sono un esibizionista, mi sento a disagio quando mi trovo al centro dell’attenzione e cerco sempre di essere, prima ancora che apprezzato, non notato. Soprattuto sono alieno da ogni forma di ostentazione. Era perciò inevitabile che il lavoro di e/static venisse fuori in un certo modo, in tutti i suoi aspetti, a cominciare dal nome stesso, perché non avrei mai potuto dare il mio nome e cognome allo spazio, un’eventualità che non ho mai preso in considerazione.

Un’altra cosa molto interessante emersa recentemente guardando i due ultimi film di Teshigahara, e poi leggendo qualcosa su Rikyū e Oribe, il suo seguace e successore nella carica di maestro della cerimonia del tè dello shōgun (rispettivamente Hideyoshi e Ieyasu). Oltre agli aspetti più noti della sua forma cerimoniale (povertà e semplicità degli utensili, con tazze neppure decorate, e sempre asimmetriche, imperfette) ho letto da qualche parte della sua – o della loro – convinzione che ogni esperienza fosse unica e irripetibile e andasse quindi vissuta intensamente, proprio sapendo che non si sarebbe mai potuta rifare in alcun modo, se non fingendo (perdendo quindi ogni sua autenticità e rendendo la rappresentazione del tutto sterile e vacua).
Anche questa cosa è venuta fuori spesso in quegli anni, soprattutto nella seconda parte, direi, con campo volo in particolare, ma poi anche killing floor e La collera delle lumache.

Infine: io credo che le Rooms of Stillness [Stanze della quiete] di Julius fossero delle stanze del tè così come le concepiva Rikyū, o comunque qualcosa di molto simile. Non so se lui ne fosse consapevole, non se ne è mai parlato, ma forse no, l’idea nacque in lui spontaneamente, dopodiché scrisse quel breve, denso testo che tanta importanza ha avuto per me, e continua ad avere.

N.B.: questo testo non appare sul libro Allestire una mostra, pur essendovi, in parte, connesso, e chi leggerà entrambi, il libro e il testo, potrà avere un’idea più ampia e approfondita di certi temi. E il sottotitolo allude abbastanza esplicitamente al libro: questa è effettivamente una sua postilla, anche se non vi appare. Perciò ho deciso di inserirlo in questa sezione del blog, che presenta appunto una selezione di materiali del libro, in una fase della loro elaborazione.