
Qualche sera fa ho visto, per la prima volta, 24 Frames, l’ultima opera di Kiarostami, uscita postuma un anno circa dopo la sua morte. Non ne sapevo granché, ma pensavo a qualcosa di simile, o di analogo, a 51, di qualche anno precedente, che avevo apprezzato, soprattutto l’ultima parte, quella di più complessa realizzazione, mi era molto piaciuta. Ma già subito, leggendo la breve introduzione al film dello stesso K., intuivo che non era come pensavo, tutt’altro, e il primo dei 24 frames mi toglieva ogni dubbio. Fra l’altro, la sua posizione all’inizio mi sembra un gesto di cortesia, perché ci mette subito sull’avviso: così come parti del celebre quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve, iniziano, inopinatamente, ad animarsi, tutto quello che verrà dopo, anche quando non si direbbe, ebbene, anche quello è ‘falso’, o ‘falsificato’, grazie all’utilizzo (a quanto si sa, da parte di tecnici esperti che avranno messo in pratica le indicazioni del regista) di sofisticate tecnologie digitali. Già questo particolare basta a spiazzarmi e a mettermi in una cattiva disposizione: Kiarostami, il maestro della semplicità e della leggerezza, che ha fatto i suoi film più belli e più famosi, negli anni ’80 e ’90, con troupe ridotte all’osso, girando sempre all’aperto, in bilico fra realtà e finzione (ma quest’ultima agita da non-attori, che così creavano, senza neppure averne l’intenzione, un nuovo livello ibrido fra le due diverse dimensioni) alla fine della sua carriera, e della sua vita, fa un film tutto di effetti speciali digitali? Dove, col procedere dei vari frames, non si può essere mai sicuri di niente, e quel che pare assolutamente vero, autentico, quasi mai è tale, o forse sì, in parte, ma chi può dirlo? Perciò si è sempre sul chi vive, scettici e perplessi, difficile lasciarsi andare, come invece accadeva sempre con naturalezza, senza alcuno sforzo, in Dov’è la casa del mio amico?, E la vita continua, Fra gli ulivi, Close-up, ecc.
Tornando al quadro di Bruegel (che era già stato ‘animato’ da Tarkovskij in Lo specchio, nel 1974, ma con mezzi ‘naturali, connaturati alle potenzialità della macchina da presa, semplici dissolvenze in fase di montaggio) a me ha lasciato quasi sgomento vedere il fumo uscire dai camini delle case, e poi udire suoni e rumori, mentre qualche animale si spostava all’interno del quadro… voleva forse scherzare, il nostro eccelso Kiarostami? e a che pro?

Tralascio di proseguire nella disamina di questo film, tutto basato su fotografie dello stesso autore, che aveva deciso valesse la pena ‘animare’, per fare vedere “il prima e il dopo dell’inquadratura” (parole sue, dall’introduzione). A me sembra un’idea risibile, come se ne possono avere a volte, magari prima di prendere sonno, a letto, e poi il mattino dopo, ritrovata la lucidità e la freschezza, vengono cestinate, preferibilmente senza parlarne con nessuno, per un sopraggiunto senso di pudore… Insomma, non considero 24 Frames un’opera riuscita – e date le premesse, forse non poteva esserlo – anche se è realizzata si può dire alla perfezione, tecnicamente parlando. E anche qui emerge una stranezza, se si pensa che tutti i suoi migliori film dal punto di vista tecnico non erano proprio perfetti, ma anche perciò, forse, avevano una freschezza e una naturalezza che qui latitano si può dire dall’inizio alla fine del film. Ma tant’è, il film c’è, è stato pubblicato, dopo essere stato completato (e già qui sorgono molti pensieri), dopo la sua morte, dai suoi collaboratori; gli stessi che, a quanto ho potuto apprendere, hanno selezionato i cortometraggi, lasciandone fuori parecchi altri, e stabilito anche l’ordine in cui appaiono. Mi stupisce un po’, peraltro, che moltissimi abbiano preso terribilmente sul serio questa strana opera postuma (perché di questo si tratta) di Kiarostami, scrivendo saggi anche estesi, e concettosi, che si avventurano a formulare una pletora di supposte intenzioni dell’autore, sforzandosi in tutti i modi di collocare 24 Frames all’interno dell’opera omnia di K., quasi un suo coronamento. Ma i critici, si sa, devono fare il loro lavoro, prendono sempre tutto sul serio e riescono a trovare ovunque aspetti, sottostrati, intenzioni anche le più improbabili, attingendo a livelli di vertiginosa complessità, e infarcendo ognuno il proprio saggio di una pletora di citazioni dotte, come a voler chiudere la bocca agli scettici che abbiano la ventura di leggerli.
A me pare che l’ultima fase creativa di Kiarostami, pur essendo lodevole il suo intento di cambiare un po’ per non rischiare di diventare la caricatura di sé stesso, mostri, riconsiderata dopo qualche anno, non pochi segni debolezza, e non basta, a mio avviso, che egli abbia un po’ pudicamente apposto la ‘pecetta’ del termine “sperimentale” su alcuni di essi, come per giustificarsi e nello stesso tempo collocare questi tentativi in un’area diversa rispetto alle sue opere più riuscite e più importanti. Insomma un po’, come dire, fuori concorso, per sottrarle a un giudizio troppo severo, che non sopporterebbero facilmente (ciò di cui forse era consapevole).
Il primo fu il controverso (vedremo perché) 10, che sembra un tipico film di K., con tutte quelle conversazioni all’interno di un’auto, cifra di tanti suoi film, epperò… Già la protagonista di tutte le varie scene era un’attrice-regista, anche attraente, fra l’altro, e certe situazioni (ad esempio la discussione fra lei e il figlio, figura alquanto indisponente, va detto, come mai accaduto prima in alcun film di K.) mi erano da subito parse strane, come artificiose, si intuiva qualche discrepanza rispetto a prima proprio nella scelta dei personaggi, in diversi casi protagonisti di situazioni affatto insolite per questo autore. E infatti… soltanto recentemente sono venuto a conoscenza della sgradevole querelle fra l’attrice-regista e Kiarostami, del fatto che tutto (o quasi tutto) il materiale era già stato girato da lei (incidentalmente, applicando una delle più tipiche modalità di K., due persone che dialogano su un’auto, l’autista e il passeggero seduto accanto a lui), quindi dallo stesso utilizzato, con l’approvazione di lei, per mettere insieme il film nella sua forma definitiva. Non mi pronuncio sulla questione, ci mancherebbe, oltretutto me ne mancano i necessari strumenti, so giusto qualcosa, e inoltre K. è morto prima che che la signora denunciasse al mondo la sua scorrettezza, quantomeno, dato che avrebbe utilizzato il suo girato, manipolandolo in parte, senza darle il dovuto credito. Addirittura, il regista l’avrebbe anche violentata, o quantomeno molestata due volte (un copione che si ritrova in molte denunce, non tutte credibili, fatte soprattutto da donne molti anni dopo i fatti, incoraggiate dal vento del me too, cosiddetto). Insomma, una storia sgradevole che avrei preferito non sapere, ma che mi conferma nella mia sensazione che qualcosa di poco chiaro sottostasse a 10, facendomelo piacere meno di molte altre sue opere.
Quando, dopo le normali vicissitudini che incontra chiunque (ma soprattutto chi si addentra in territori ancora inesplorati), le incomprensioni, le frustrazioni che vi sono connesse, eccetera, finalmente si viene accettati, quindi elogiati, premiati e acclamati, allora viene il difficile. Soltanto elogi ora, quasi nessuno trova più niente da ridire, non si fanno più critiche e quei pochi che ci provano rimangono inascoltati, ignorati, quando non zittiti, quasi come bestemmiatori. Così può diventare veramente difficile per un autore rendersi conto se quel che sta facendo merita veramente, e se per caso non abbia fatto qualche grave errore. Proprio perché nessuno si azzarda a farglielo notare, ora sono tutti impegnati ad elogiare e acclamare, prima ancora di vedere e considerare.
1 5, o Five (anglicizzato come un po’ tutto ovunque, questi sono i tempi che ci tocca vivere…), spesso viene ampliato con l’aggiunta di Dedicated to Ozu. Non metto in dubbio che sia vero, certamente K. doveva avere un’alta opinione di Ozu, ma mi fa strano che la dedica divenga parte del titolo, appesantendolo con una caratterizzazione che a me pare un po’ forzata. Ma è così, questa è l’epoca della semplificazione e volgarizzazione spinte all’estremo, il secco, il conciso – come appunto può apparire un titolo fatto di una sola cifra numerica, non vanno bene, bisogna dare un aiutino ai poveri di spirito, e soprattutto ai frettolosi, che sennò saltano altrove – mentre smanettano sul proprio smartphone – in un nanosecondo, e non li becchi più.
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